Sunday, April 22, 2007

La banalità del bene


(una parentesi)

Ad alcuni capita, ogni tanto, di poter vedere "la grande Storia" dall'interno di una sequenza della propria vita. Erano le tre del pomeriggio e sentivo la mia voce chiedere a una giovane mamma, in piedi dinanzi a un megaschermo di una biblioteca pubblica, domandare che cosa stesse succedendo al Virginia Tech. Non lo sapeva. Neanche i commentatori televisivi e i loro ospiti lo sapevano. La mamma si era allontanata con i suoi bambini, l'aria stanca, stordita da una quantità di immagini e di parole che non riusciva a metabolizzare; un poliziotto aveva preso il suo posto al mio fianco.
Tornato in università, riferivo ai colleghi quello che amici e parenti europei mi rimbalzavano a loro volta grazie al tv via satellite; la risposta però era inattesa, disinteresse e stanchezza, o meglio quel sentimento complesso che si chiama grief e che esige rispetto, silenzio e sospensione di ogni giudizio. Tornano a lavorare.

«Nulla è tanto insopportabile per l'uomo quanto lo stare in riposo completo, senza passioni, senza preoccupazioni, senza svaghi, senza applicazione. Allora sente il suo nulla, il suo abbandono, la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto. Immediatamente dal fondo della sua anima verranno fuori la noia, la tetraggine, la tristezza, l'affanno, il dispetto, la disperazione.» (Blaise Pascal, fr. 131).

Le immagini continuano a scorrermi davanti agli occhi, mentre svolgo la mia critica alla ragion pura. Grief, è un sentimento per qualcosa di grave che accade ad altri. So per certo che sono stati uccisi degli studenti, 22 si diceva dopo sette ore; oggi, a tre giorni di distanza, risulta che un giovane asiatico, a due riprese, a quasi due ore e mezza l'una dall'altra, aveva commesso una strage superiore nelle proporzioni a quella di Columbine. Due ore e mezza di blackout, due ore e mezza di paralisi in un paese per definizione in continuo movimento. Proprio come l'11 settembre. Sento la spiegazioni dei commentatori. Tutte hanno qualcosa di comune. In un paese di 300 milioni di persone, nel quale ci sono almeno diecimila motivi diversi perché un fatto del genere accada, il fatto è accaduto e la storia è finita regolarmente su tutti gli schermi. Misteriosa come la morte di Ayrton Senna o il naufragio del Titanic. Tanta gente muore sulle strade o per tumore. Punto. Le ragioni sono mille, tutte possibili e plausibili: la colpa è dei repubblicani, dei democratici, delle Corporations, delle lobbies, dei bianchi, dei neri, dei gialli, del Midwest, della California, del'America, degli USA. Il mio grief mi impedisce di fermarmi a questi giudizi, che saranno forse in parte anche veri.

Le immagini mi mostrano studenti che scappano, militari che si muovono tra le mura di un campus, tranquillo proprio come il mio. Un prestigioso politecnico, in un paese dove l'educazione è seconda solo alla giustizia nella gerarchia dei valori. Di fatto, è come avere sparato in chiesa, e questo è un sacrilegio, si sono colpiti esseri indifesi e pieni di vita, che erano lì per essere istruiti sulle magnifiche sorti del progresso tecnologico. Le parole raccontano di vicende sentimentali, politiche, sociali, costruiscono trame di complotti... e a poco a poco il loro significato si dissolve.

“L'unica cosa che ci consola delle nostre miserie è il divertimento, e intanto questa è la maggiore delle nostre miserie. Perché è esso che principalmente ci impedisce di pensare a noi e ci porta inavvertitamente alla perdizione. Senza di esso noi saremmo annoiati, e questa noia ci spingerebbe a cercare un mezzo più solido per uscirne. Ma il divertimento ci divaga e ci fa arrivare inavvertitamente alla morte”.(Pascal, fr. 171).

Vedo immagini e non capiscono che cosa vogliono dire. Certamente, una strage di questo tipo poteva avvenire solo qui,
perché nel bene o nel male, questo è il sistema americano, che dopo il liceo ti allontana da una famiglia che spesso è assente (e qui, con cognizione di causa, parlo di "imitazioni di famiglie"). Qui mi appare tutt'a un tratto il confine tra ciò che è proprio una cultura, con i suoi valori e limiti e quello che riguarda tutti noi, da ogni lato di ogni oceano.

"Ho cercato di fare film semplici e sinceri, con personaggi che siano umani e veri: non sono marionette, ma persone reali. Parlano in inglese ma potrebbero parlare turco, italiano o svedese, potrebbero essere tanto Americani quanto Europei" (Frank Capra)

Cho Seung Hui, che rimarrà nella storia come "anti-social student", alla fine ha ucciso 32 persone, per lo più ragazzi che cercano di ricostruirsi un'identità e chiedono come debba vivere questa vita. E che questa vita vogliono viverla, con i loro amici. Lo ha fatto negli States e poteva farlo in questo modo solo qui. Vedo sempre sullo sfondo la mamma che guarda spaesata la catastrofe nazionale, qualcosa di fin troppo banale, ma in fondo sensato. Il contrappunto di un luogo dove quanto è umanamente realizzabile diventa, in forza della legge una possibilità offerta a tutti e allo stesso tempo, le bussole morali sono infinite e insindacabili, perché ridotte a giudizio privato. Allo stesso tempo, questa non può essere archiviata come una storia americana. In quella mamma scoraggiata che allontana i suoi bimbi dal video e in quei giornalisti logorroici, in questo campus dove un pazzo può vagare indisturbato per tre ore sotto l'occhio delle telecamere e della polizia, e solo decidere lui quando è il momento di abbandonare la scena togliendosi la vita, è racchiuso tutto il mistero dell'intera vita umana. "L'America, è nata nelle strade", era lo slogan di un film imperniato sulla violenza degli inizi della vita a New York. La mia mente, spesso così razionalistica, non riesce a fermarsi su questo punto. Alcuni fenomeni avvengono qui prima che in altre regioni perché si tratta del centro dell'impero: ma la storia ha una portata più ampia, ed è quella che preoccupa i miei amici europei e conferisce un merito enorme quanti hanno sacrificato la loro vita per i loro amici al VT, una garanzia, assieme all'eroismo di tante vittime, di fronte alla banalità di un male che si è insinuato silenziosamente nelle nostre storie private e in quelle delle relazioni di cui pretendiamo innaturalmente di cambiare le regole. Alla ricorrente barbarie della ragione. È così di moda citare Hannah Arendt e la sua banalità del male, quasi un balsamo...

Mi accorgo che da alcune ore, due pensieri si intersecano nella mia mente, come due personaggi. Uno lo conosco bene, corre veloce, parla molto; adesso ha rallentato il passo: vorrebbe trovare una spiegazione, e una colpa, e un colpevole che le tolga la paura che la fa correre così veloce. Una paura legittima, perché il male è vero.

“Non stiamo mai nei limiti del tempo presente. Anticipiamo l'avvenire come se fosse troppo lento ad arrivare, quasi per affrettare il suo corso; oppure rievochiamo il passato per fermarlo; quasi troppo precipitoso; siamo così imprudenti da scorazzare in tempi che non ci appartengono e da non pensare all'unico tempo che ci appartiene; siamo così fatui da sognare i tempi che non esistono più e da fuggire senza riflettervi, il solo che sussiste. Perché, di solito, il presente ci tormenta. […] Per questo, non viviamo mai, ma speriamo di vivere; e, disponendoci sempre a essere felici, è inevitabile che non lo diverremo giammai.” (Pascal, fr. 172)




L'altro pensiero, un personaggio spesso taciturno e discosto che da tempo faccio fatica a capire, continua ad osservare la scena. E impedisce all'altro di prendere forma, o meglio gli suggerisce una forma, al di là della paura. Perché è un pensiero sofferente ma non inquieto, osserva e tace.

Spesso, in passato, mi sono chiesto se quando Giovanni Paolo II parlava della crescente diffusione di una cultura della morte, non si sbagliasse nel valutare l'impatto della crisi della famiglia, il disprezzo palese della vita umana, della dignità della persona e della sua libertà, delle violazioni della giustizia e del bene comune. Se questo era vero, se modificare strutturalmente la famiglia, i rapporti sociali e amicali, le relazioni sessuali, la nostra natura biologica, le frontiere della vita e della morte erano veramente quello che pensavamo che fossero, il mondo sarebbe dovuto venir meno in un istante. Un eminente collega, noto intellettuale cattolico, sosteneva inconsapevolmente i miei dubbi: "E basta con questi slogan ingenui, la realtà è molto più complessa! La Chiesa, come al solito, tira acqua al suo mulino, con le sue visioni semplicistiche" (sì, siamo spesso alcuni di quelli che ricevono i finanziamenti dalla Cei o campano delle collette nelle parrocchie). Caro mio, come ci sbagliavamo. L'impatto c'è eccome e noi intellettuali, dall'isolamento dei nostri dipartimenti, ci siamo accecati con le nostre stesse teorie. E paradossalmente questi dipartimenti li vedo, nelle immagini che passano davanti: vengono attaccati e non difesi, come i monasteri di un tempo. Mi viene in mente che un importante filosofo, non molto lontano dal Virginia Tech, ha recentemente pubblicato i due agili volumetti "On Bullshit" e "On Truth": oh, questa sì che è alta cultura, tradotta e venduta in tutto il mondo! Queste sono le parole elevate che vanno difese.

(Scipione) pensava che non fosse prospero quello Stato in cui le mura rimangono, i costumi crollano. Tuttavia è dono di Dio che siate ancora in vita (Agostino).

Sono passate alcune ore. Continuo a lavorare al computer. Mi passano davanti i titoli della BBC, che scorrono sul video del mio computer: le trasmissioni da Bush House, Londra, venivano interrotte per pregare su queste sciagure umane. A Londra. Coincidenza vuole che anche il presidente americano, nella sua casa, preghi Dio. E con lui, la gente nelle strade, nelle università, negli stadi. La gente è stanca, la gente prega, la gente ha spento la televisione. Le parole inutili sono diventate preghiere. I titoli di coda della BBC lasciano il posto ai personaggi di questa vicenda, ragazzi che poche ore prima erano ignari che sarebbero morti in questo modo. La mia connessione astrale con la Storia a questo punto si interrompe.



Sono ritornato nei miei panni di filosofo, non posso fare a meno di constatare che questa vicenda ha sgretolato qualche pregiudizio nella mia mente: Giovanni Paolo II non ha perso la partita contro un nichilismo, che vive parassitariamente della giustizia umana. La banalità del bene, scambiata per semplicioneria, è in grado di ristabilire il senso delle proporzioni. È come se il mondo si fosse capovolto, come se ci fosse stata una rivoluzione copernicana nella mia mente. Che si condensa in un unico messaggio, semplice e realistico; e credo che il mio ospite silenzioso sia riuscito a spiegarsi col suo amico dalla logica geniale, dalla parola veloce e dalla profonda paura. Gli ha lasciato qualcosa, o qualcuno con cui ricominciare. Good Grief!

«L'uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante. Non c'è bisogno che tutto l'universo s'armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d'acqua basta a ucciderlo. Ma, anche se l'universo lo schiacciasse, l'uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell'universo su di lui; l'universo invece non ne sa niente. Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. E' con questo che dobbiamo nobilitarci e non già con lo spazio e il tempo che potremmo riempire. Studiamoci dunque di pensare bene: questo è il principio della morale»
(Pascal)


Good Night and Good Luck

Marco



L'immagine riportata sopra è il quadro di Norman Rockwell, Freedom from Fear,
la bandiera è a mezz'asta nel Main Quadrangle
dell'Università di Notre Dame
dal giorno della strag del Virginia Tech
.