
Ho incontrato Charlie Brown...
Il papà è seduto sulla poltrona e legge il giornale e il bambino gli ronza intorno, "papà giochiamo assieme?" "Papà, posso vedere la tv?", "Papà, mi racconti una storia?"
Due killer professionisti, su una vecchia Mustang rossa, si dirigono verso Minneapolis. "Possiamo fermarci un attimo? Ho fame", "Solo un attimo, dài, questo viaggio è noiosissimo e in quattro ore non hai detto una parola", "Il mio stomaco ha bisogno di compagnia..."
"Perché, come sai, il figlio di Lisa, sai quello che una volta è tornato a casa strafatto, ma proprio che non si reggeva in piedi, tanto che sua moglie glielo ha detto chiaro e tondo, se continui così da questa porta non ci entri piu', lei, poi, che se non si beve almeno mezzo litro a colazione..."
"Quello che veramente ti manca è la volontà. La verità è che è proprio nel cervello che sei un perdente!"
In ognuna di queste conversazioni (o monologhi), i silenziosi personaggi di sfondo, pur in situazioni tanto diverse, si volteranno verso colui che parla e inevitabilmente, fissandolo con uno sguardo stanco e allo stesso tempo fortemente intimidatorio, gli diranno: "Please, give me a break!". C'è una e una sola risposta e uno e un solo sguardo, e sono appunto quelli che ho appena citato. "Gimme a break!"

"Wake up: hybernation is over!", esclama la tartaruga Verne, ai suoi amici che si risvegliano dal letargo, scoiattoli, opossum (sapevate che gli opossum fanno finta di essere morti se sono in pericolo?), porcospini, procioni, etc. E insetti di ogni tipo. Via tutti, preferibilmente in Florida a stuzzicare gli alligatori o alla propria hometown. Oppure in qualche progetto di volontariato.
Già nell'intervallo del pranzo comunque, pur essendo ancora sotto lo zero, comparivano le prime coppie a fare footing nel campus, senza particolari ammennicoli, rispuntavano al sole gambe e braccia lattee. Il giorno dopo, al tiepido sole di primavera, tra chi giocava a baseball, basket, football, calcio, lacrosse, ultimate freesbee, ho avuto una visione. Ho visto Charlie Brown. Due volte. Ma la seconda era quella giusta.

Il primo Charlie Brown si chiama Charlie Brown, nome piuttosto comune negli States: conosco suo nipote ed è stato lui a presentarmelo, con un sorrisetto assieme beffardo e implorante ("non farmi la solita battuta, please!"). "Questo" Charlie Brown, nonostante la sua ID, era l'esatto opposto del personaggio dei fumetti: persona di successo, quarantacinque anni portati benissimo, molto sportivo, nessuna crisi di identità... Il secondo Charlie Brown si chiama in un altro modo ma nella sua molteplicità identità (Charlie Brown è di fatto un "tipo") e nella sua perenne crisi di identità (non era così nei primi anni, quando Schulz era solo timido, scriveva per un giornale cattolico e non protestante - è un fatto - e non depresso e Charlie Brown era una piccola peste), è identico al "vero Charlie Brown", testa rotonda, indeciso, sensibile, problemi di sonno, etc.
Chi tra noi ha letto tutti i Peanuts in sequenza cronologica, sa che il racconto segue, con qualche piccola variazione (l'introduzione di qualche personaggio, qualche storia secondaria), l'andare del normale anno, scandito dalla scuola, dal campo estivo, dal Natale e dai vari sport, baseball (primavera-estate), football (autunno), hockey (inverno). All'inizio di marzo, Charlie Brown è lì, col suo guantone, in cerca della sua squadra. Un anno, c'è talmente tanta neve che la pedana di lancio è coperta e non si vede nulla, un altro piove a dirotto e la squadra va alla deriva sui guantoni... Charlie Brown è sempre lì, attende l'ennesima stagione in cui tenterà di vincere almeno una partita, e si allena al freddo. Adesso, Charlie Brown è fuori che gioca (tra parentesi, credo che il vero sport di Charlie Brown sarebbe dovuto essere il bowling) e con lui ci sono proprio tutti i personaggi che conoscete dalle più di diecimila strips che ci hanno accompagnato dall'infanzia.

In qualche modo, per inciso, quasi ogni fumetto americano ha qualcosa di tipico e di peculiare che va contro la logica. In certi casi è più evidente, ma a parte i fumetti a sfondo politico, da cui salvo, per genialità e finezza, solamente Pogo di Walt Kelly, devo ammettere che molte strips hanno qualcosa che non funziona o almeno non corrisponde alla realtà che si vede fuori dalla finestra o camminando per strada. In fondo non sono la realtà. Prendete appunto l'intera produzione di Schulz: è composta da splendidi caratteri, fissati nel tempo e nelle caratteristiche (è una scelta che prima o poi ogni fumettista di successo deve fare), ma soprattutto "mentalmente bloccati". A parte una piccola evoluzione iniziale di Charlie Brown, ognuno di loro si mantiene identico per cinquant'anni. Ma in questo non c'è niente di strano: non per niente sono "caratteri". Ciò che normale non è, è che nessuno di loro prende mai una vera decisione, risale la corrente, la critica che tutti fanno a Charlie Brown, di essere "senza carattere", vale per tutte le "noccioline". Ognuna, salvo forse Pig Pen, non prende mai una vera decisione che non sia condizionata dall'ambiente o dal suo modo di essere: è in grado soltanto di essere spettatore dei propri sentimenti e dei propri desideri. Non sto dicendo, ovviamente, che siano personaggi cattivi: C.B. ha fiducia nella gente, ricomincia dopo avere perso, aiuta la sorella, e così via, ma in fondo agisce sempre allo stesso modo, è tremendamente prevedibile nella sua emotività. Tutte le cinquanta volte che ha calciato senza successo il pallone di football di Lucy, e salvo una, è volato per aria, non gli hanno dato un grammo di pazienza. Proprio come uno che vede sempre lo stesso film. E lo stesso vale per Lucy, Schroeder, Linus, Sally, Replica, e così via. Il loro quartiere è quello di emozioni, non importa se vincenti o frustrate, generalmente vale la seconda, di cui loro e noi con loro siamo spettatori. Sono in qualche modo l'antitesi dello spirito vincente americano, amalgamato con un momento di crisi motivazionale della psichiatria, la stessa che probabilmente ha influenzato a lungo Woody Allen, ma trasferita dalla penna di un genio da Manhatthan nel Minnesota, dove sicuramente non è di casa. Ma erano altri tempi, e forse non è un caso se nelle ultime annate, Charlie Brown riesce (spinto, ingannato...) ad avvicinare la ragazza dai capelli rossi (non le parlerà mai, comunque) e a trovarsi inaspettatamente soggetto di due amori (corrisposti), una bambina lo chiama Brownie Charles, e lui non riesce mai a dirle il suo vero nome; l'altra frequesta con lui la scuola di ballo. So che questa idea potrà sembrare balzana ma proviene dalla lettura ripetuta di tutti i Peanuts, assieme a quella delle biografie e interviste principali al loro autore. Pensateci bene, e riflettete sul ruolo terapeutico di Lucy, e all'amore di Linus per il dott. Spock e per miss Othmar (sposata Hagemeyer), e dimenticate per un attimo la sacralità della linea essenziale di Schulz, forse molte cose vi sembreranno possibili.
A pensarci bene, anche Calvin & Hobbes ha una sua peculiarità. L'ambiente in cui si svolge, un suburb, che qui è solitamente un "quartiere residenziale" di famiglie giovani di medio livello economico (a livello più alto, trovate la casa dei sogni oppure la villa cheesy, cioè ricchissima ma di pessimo), di solito abitato da famiglie con più di un figlio, una delle ragioni per cui appunto si muovono dal downtown. Ora Calvin, con la sua tigre di pezza che prende vita è un'anomalia. È un figlio unico in una galassia di famiglie numerose. Il suo mondo è totalmente immaginario, anche se sicuramente è un bambino socievole. Fate i conti: una mamma, un papà, una tigre, una compagna di classe e una maestra. Il resto è immaginazione. Penso che ci sia qualcosa che motivi la scelta, anche se senz'altro il mondo dell'immaginazione, che il depresso Schulz delegava a Snoopy, qui la fa totalmente da padrone e in fondo costituisce la sostanza di una geniale vignetta che ha vissuto per dieci anni solamente. Abbastanza, per il geniale monologo di un ventriloquo.

Così Bill Watterson morì (artisticamente) prima di diventare l'erede di Schulz. Posto che oggi occupa la canadese disegnatrice canadese Lynn Johnston, che ha adottato lo schema più consueto della sitcom e che funziona, con tutta l'ambientazione, il naturale apparire e scomparire dei personaggi, le loro peculiarità, i loro pregi e difetti, continua For Better or For Worse, meritatamente da 25 anni e, assieme a una versione meno incisiva di Blondie e Dagoberto (qui la scelta è di fissare il tempo della vita di una famiglia normale ad un certo punto della evoluzione raggiunta, cioè figli grandi ma ancora a scuola, diciamo il modello Happy Days, quello che da forse più spunti), dimostrando che la famiglia al completo e con i suoi difetti, ma anche con i suoi pregi e peculiarità, rimane nel cuore degli americani. C'è quindi qualcosa di più dello stereotipo Disney o forse Disney ha usato questa visione, magari ingenua, sicuramente rassicurante, ma allo stesso tempo realistica (in For Better or For Worse può non esserci l'happy ending) a cui ogni americano aspira. La stessa che trovate in linea in Leave it for Beaver, e di seguito in Happy Days e Cosby Show (I Robinson).

Nonostante il proliferare della letteratura di auto-stima, socializzazione, motivazione o ispirazione, l'americano medio, specie se proviene da una famiglia con problemi, non cerca nei libri ma proprio nella famiglia i suoi riferimenti. E con la famiglia vengono appresso il vicinato, l'amicizia, la pratica religiosa. Non sempre precise, non sempre disinteressate, non sempre sicure, però sono lì. Pensate a Little Miss Sunshine, un condensato di pali di sostegno per la propria vita: il padre cerca di promuovere i dieci gradi del successo, la madre legge letteratura ispirazionale, il figlio divora Nietzsche e non parla, la figlia cicciona sogna di essere Miss America, il nonno si droga e rimpiange il passato, lo zio ha tentato il suicidio dopo una delusione amorosa e le galoppate nelle praterie dei riconoscimenti accademici. Ma è la famiglia che li rimette insieme, ridando a ciascuno il ruolo che gli compete (strano, eh?).
Purtroppo quasi tutti gli attori e cantanti sono in rehab da qualcosa, i pochi normali che si salvano è perché hanno una famiglia stabile che vale più di tanti libri, piani, motivazioni, etc.
Non tutte le famiglie normali sono così, è l'altro flip of the coin e questo

Sì, penso che siate pronti a mangiare la carne dura dei cow-boy, ma solo se superate un test post-festivo.
Intanto però, vi lascio con la famiglia che funziona: sono proprio fuori dalla mia finestra.

Oh, non vi ho detto della mia casa. Mi sembra di vivere in una specie di Happy Days tutte le volte che ci torno. In sintesi: prato di fronte, prato dietro (backyard). Porch, purtroppo senza sedia a dondolo. La cassetta della posta, quella classica, col numero e la veletta (1127 St. Peter South Bend, per chi usa Google Earth). Piano terra (qui First Floor) con soggiorno (immancabile enciclopedia americana e Great Books, piccola veranda interna, sala da pranzo/studio e cucina in rapida successione). Alla cucina si accede dalla tipica porta laterale, dal lato opposto si scende nel basement. Qui è stato risistemato e ci sono anche delle camere supplementari, per eventuali ospiti di passaggio e un bagno, però alcune stanzette conservano quell'aspetto rustico tipico della cantina con la caldaia che spaventava Macaulay Culkin in Home Alone: il basement spesso non è riscaldato ed è un po' deposito, un po' lavanderia, un po'...tutto. L'accesso è angusto, l'architrave di sbieco (come quella della mansarda), la scala ripida e incredibilmente pericolosa. Può essere, proprio come in Home Alone, un vero campo di battaglia. Dal soggiorno, guarda un po', parte la scala che porta upstairs, stile "Joanie, vai al piano di sopra!", e al piano di sopra ci siamo due stanze, uno studio e io (che condivido una stanza con la mia stanza per non sprecare spazio). Tutto come nei film, arredamento in legno, cassettiera, comodino, scrivania, mega armadio/ripostiglio, due finestre che ancora non riesco a capire bene come si aprono, ma con un'efficace protettura dagli insetti, e bagno. Di mio, ci ho aggiunto libri, gadget

La mamma lancia la palla da baseball e i bimbi, da otto anni a tre, sono nelle posizioni che possono occupare in ragione della loro età. Mi si stringe il cuore quando vedo il papà che fa da coach (i papà di solito tornano a casa alle 5 per giocare con i figli): due anni fa, appena trentenne, gli hanno diagnosticato un tumore maligno. Un mese in ospedale a Chicago. I due bambini più grandi, il primo aveva gli incubi la notte, il secondo si arrabbiava con Dio quando recitava le preghiere della sera, come solo un bambino sa fare. Ogni mattina, la mamma li accompagnava a scuola e poi partiva per Chicago. Tornava alla sera, per accudire ai bambini. Dopo un mese e mezzo di trattamento intensivo, questo mio vicino che ora è anche mio amico, è stato dimesso. Dopo poco, la ricaduta, più forte. Ricominciavano i viaggi a Chicago, i vicini hanno regalato un'auto nuova alla moglie, perché potesse fare le sue tre ore di macchina in maniera sicura e non con il van di famiglia.
"Papà sta molto male, ma guarirà, se dovesse rischiare di morire, te lo direi per tempo". A questo punto, questa è stata la sincera comunicazione della mamma ai figli più grandi. A volte vedi l'anima affiorare sul viso di una persona. In questo caso era un piccola vibrazione che attraversava di traverso tutta la faccia, e anche se non vedevi nessuna ruga o smorfia, il messaggio era: io amo mio marito, ho cinque figli, sono stanca, il futuro è incerto e io sinceramente non so che cosa fare. Per un attimo, quella vibrazione ha riportato in superficie tutto questo, e poi è scomparsa improvvisamente. Il marito è guarito, sembra definitivamvamente, ma chi può dirlo? "Dio non ci ha abbandonato un solo momento". Neanche adesso, mentre lancia la palla con la piccola in braccio che piange (cosa che forse neanche Joe Di Maggio avrebbe fatto bene). Il mio amico ha ripreso da poco a parlare, perché la chemio gli aveva intaccato le corde vocali, non so se il figlio più grande ha ancora incubi, ma il secondo mi sta insegnando a pregare sul serio. Oltre a insegnarmi a giocare a baseball (poco importa la qualità, gli serve una base).
Diceva Mr. C. nell'ultima puntata di Happy Days (256), quella a cui fa riferimento la foto di sopra (sono le ultime parole, quasi tutto il cast è riunito per il matrimonio di Joanie, e la serie si conclude con questo brindisi, dopo la cerimonia): «I nostri due figli sono sposati adesso e cominciano a costruirsi la vita per conto loro. Io credo che quando questo momento arriva per due genitori, è ora di riflettere su quello che hanno fatto e hanno portato a termine. Marion e io non abbiamo scalato il monte Everest oppure scritto la storia americana. Ma abbiamo avuto la gioia di crescere due meravigliosi ragazzi, di vederli crescere circondati dai loro amici e diventare adulti. Se il Signore vorrà avremo la gioia di vederli educare i loro figli e vi assicuro che un uomo e una donna non possono volere di più. Grazie a voi tutti per aver fatto parte della nostra famiglia: Happy Days!». Tom Bosley, oltre a essere Howard Cunningham, introduce la versione americana di La vita è una cosa meravigliosa. Il cerchio sembra chiudersi...
Dall'altro lato della strada, si gioca a basket, nell'isolato accanto c'è una gara di biciclette. Vicino, due coppie dondolano i piccoli sulle altalene, mentre qualche altro bimbo gioca nella mitica sandpit. Consiglio: se volete fare felice una giovane mamma, preparate la cena per la sua famiglia. Le bimbe, era stato un mio quesito da sempre, fanno proprio LE TORTE CON IL FANGO. E vogliono che le assaggi. È troppo: devo andare a cercare qualcuno da sfidare a biglie sul cemento davanti al garage... c'era una svendita di marbles da WalMart e forse stasera riesco a battere il piccolo Bill...
Good Night and Good Luck
Marco

"Only 273 days left till winter", è quanto la tartaruga Verne mi incarica di dirvi, prima di uscire da casa.
Un ringraziamento particolare ai miei vicini, tutti, e ai tanti papà che tornano a casa per giocare con i figli. Buona Pasqua!
1 comment:
Caro Marco, sono ammirato dal tuo splendido diario.
Ammiro questa tua immensa apertura verso la vita, questa tua dispositio ad accogliere ed elaborare tutto ciò che si mostra al tuo sguardo...trasformandolo in lucida, intima e ragionata esperienza di vita.
Che dire...colgo l'occasione per farti i miei più sinceri auguri di una Santa Pasqua.
Mauro Mendula
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